venerdì 10 luglio 2015

#CampaniaRacconta: Passaggio di testimone tra Antonella Cilento e Emilia Besabea Cirillo

Al termine del primo incontro del ciclo di appuntamenti con "Mi racconti una storia?" la scrittrice napoletana Antonella Cilento consegna il libro "testimone" con il quale proseguire l'itinerario narrante di #CampaniaRacconta.
Pubblichiamo qui di seguito il testo che accompagna il passaggio del quale è destinataria Emilia Bersabea Cirillo.



"Che responsabilità consegnare un libro, passare il testimone! E, soprattutto, doverne scegliere uno e nessun altro fra i molti che rappresentano la vera letteratura e dunque il vero senso dell’arte, dell’incontro, dell’avventura umana!
Voglio passare dalle mie mani a quelle dell’autrice e amica che mi seguirà un libro-tesoro, allora, di quelli che si trovano con difficoltà perché l’editore stenta a ristamparlo, di quelli preziosi che tutti dovrebbero leggere perché in tanti potrebbero averlo scritto, data l’intensità delle storie personali e familiari e la condivisione di esperienze generazionali che raccoglie, ma solo una, Fabrizia Ramondino, ha realizzato.
L’opera prima di Fabrizia s’intitola “Althenopis”, è un libro uscito da Einaudi nel 1980, anno di svolta per la letteratura in Italia, l’anno de “Il nome della rosa” di Umberto Eco e di “Altri libertini” di Pier Vittorio Tondelli, per dire due titoli diventati, per ragioni diversissime, riferimenti, boe di passaggio fra generazioni diverse. Ma è, appunto, anche l’anno di questo curioso romanzo, costruito per capitoli fatti di luoghi o di personaggi, nonne, zie, mamme, e di città ma anche di stanze di una casa, quella materna, esplorata come un utero. Noi siamo le case che abitiamo. E siamo le città dove viviamo.
Scrisse anni dopo Fabrizia Ramondino, in un altro suo libro, che Napoli non è una città materna ma una città balia, di quelle che curano i figli e poi li cedono ad altri destini, ad altri paesi. Per lei era stato vero poiché da Napoli per un lungo periodo fuggì, abitando in Germania, in Spagna, ma poi vi tornò, installandosi nel centro del centro storico, in una biforcazione antichissima dei decumani, per poter guardare da vicino l’umanità che le sembrava più vera: senza dimora, mendicante, umile, popolare.
Lei, che era di famiglia colta e benestante ma che, come racconta in “Althenopis”, aveva in fondo avuto un’infanzia selvaggia, avventurosa e mascolina.
In questo romanzo la Napoli della guerra e del  dopoguerra, mai nominata, “Althenopis” ovvero occhio di vecchia, come i tedeschi la chiamavano, e Itri e Castellammare e molti altri luoghi non sono designati con i nomi reali ma con i nomi dell’immaginazione, un po’ come aveva fatto cinque anni prima Anna Maria Ortese ne “Il Porto di Toledo”, il suo più sfortunato e interno libro.
Nominare un luogo e le persone che lo abitano trasformando la loro identità fantasmatica è il compito di questo meraviglioso libro, che parla di vecchi e giovani, di lingue speciali, il dialetto e le invenzioni della giovinezza, di corpi e di trasformazioni, del mistero del cuore umano, come avrebbe detto Flannery ‘O Connor, senza mai perdere di vista l’ironia, la comicità ventrale che è di Napoli e nemmeno il dramma, o le lingue che la rendono insieme internazionale, mondiale, apolide eppure anche locale, chiusa, provinciale. Una capitale e una periferia al tempo stesso.
Le bambine di ogni età si ritroveranno nelle pagine di questo libro e s’interrogheranno sul perché le cose vanno in un certo modo, perché si vive e perché si muore, perché non ci capiamo quando parliamo e perché talune spiegazioni è bene metterle in nota, come buffamente accade in questo libro, e dalle note queste stesse informazioni diventano sottostorie, come se altre voci ancora, insieme a quelle dei personaggi, prendessero parola. Libro, dunque, di fatti e di luoghi e anche di sogni, di spiriti, di evocazioni, libro di morti.
Possiamo stare al mondo e possiamo stare a Napoli senza aver letto “Althenopis”?
Secondo me no. Poiché la letteratura italiana, quella vera, quella che passerà i secoli, se ancora secoli restano a quest’arte, è stata fatta soprattutto da donne (Morante, Banti, Ortese, Ramondino) e noi tutti e tutte siamo loro debitrici."

Antonella Cilento

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